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L'AQUILA-IL CORVO-IL CRATERE-L'IDRA MITOLOGIA GRECA ROMANA
L’ AQUILA Igino narra che il re Merope aveva chiamato Cos la sua isola in onore della figlia che portava quel nome, e gli abitanti Meropi perché ricordassero in ogni istante di essere suoi sudditi. Un giorno la moglie Etemea, una ninfa, venne trafitta dalle frecce di Artemide che voleva punirla perché non la onorava come un tempo; poi, ancora viva, fu condotta da Persefone negli inferi. Merope, disperato, si uccise. Ma Zeus ebbe pietà di lui e lo trasformò in un’aquila incastonandola nel cielo. Un altro mito racconta che Zeus, giunto all’età virile, decise di attaccare Crono per cacciarlo dai cieli. Prima di intraprendere la guerra, che sarebbe durata dieci anni, celebrò un sacrificio durante il quale ricevette il presagio favorevole da un’aquila che poi, in segno di gratitudine, egli volle trasferire nel cielo stellato. Secondo un altro mito Ermes si era innamorato perdutamente di Afrodite; ma siccome la dea indifferente non gli prestava attenzione, egli cominciò a incupirsi e a cadere in un inguaribile sconforto. Zeus, impietosito di lui, escogitò un espediente: avendo osservato che Afrodite soleva bagnarsi nel fiume Acheloo, vi mandò un’aquila che doveva impadronirsi di una scarpetta per trasportarla poi in Egitto dove viveva Ermes. Afrodite, uscita dall’acqua, non riuscì più a trovarla, per quanto la cercasse attentamente non trascurando il minimo anfratto. Si mise persino in viaggio per scovarla, vagando per mari e monti finché dopo un lungo peregrinare giunse nel luogo dove l’aspettava ansiosamente il suo spasimante. Ermes, finalmente soddisfatto, premiò l’aquila trasferendola nel firmamento. Vita e morte di Antinoo Antinoo, un personaggio realmente esistito, era nato a Claudiopoli, in Bitinia. Durante un soggiorno nella città, l’imperatore Adriano si era così innamorato di quel giovane di indicibile bellezza da volerlo come suo amante favorito. Ma un giorno l’oracolo di Besa, nell’Alto Egitto, predisse ad Adriano che presto egli stesso o chi più amava sarebbe morto. Secondo la leggenda Antinoo capì che soltanto col suo sacrificio avrebbe salvato la vita all’imperatore, sicché con un sublime ed eroico gesto d’amore si gettò nel Nilo scomparendo per sempre. Immenso fu il dolore dell’imperatore, che in suo onore volle addirittura fondare una città, Antinoopoli, inaugurata nel 130 d.C. Poi, con la collaborazione di alcuni astronomi alessandrini, ideò nel firmamento la costellazione di Antinoo incastonandola proprio sotto gli artigli dell’Aquila. IL CORVO Nella tradizione greca il corvo era sacro ad Apollo perché il dio ne aveva assunte le sembianze quando il mostro Tifone minacciava gli dei. Originariamente era bianco finché il dio non lo punì per avergli portato una cattiva notizia. Fu quella la prima punizione. Il dio si era unito a Coronide (che in greco significa cornacchia), figlia di Flegia, re dei Lapiti. In realtà Coronide era una dea preolimpica, le cui sacerdotesse sapevano predire il futuro interpretando il canto di questi uccelli, sacri d’altronde a tutte le sibille e le indovine. A Coronide Apollo “si unì” per imporsi come il dio oracolare per eccellenza, ereditandone il simbolo del corvo, che da quel momento divenne un suo attributo. Ma torniamo al mito olimpico: un giorno Coronide tradì il dio con un giovane dell’Emonia. Il corvo, scoperto l’adulterio, si affrettò a riferire al padrone quel che aveva visto, ritenendo che fosse suo dovere. Alla notizia del tradimento Apollo, col cuore ribollente d’ira, afferrò l’arco e trafisse con una freccia il petto di quella donna che tante volte aveva stretto al suo. Coronide, colpita a morte, si strappò il ferro dal corpo dicendo: “Prima di pagare la mia colpa, o Febo, potevo partorire. Ora morremo, io e nostro figlio, insieme!”. Apollo, pentito, cercò invano di salvarla. Ma l’amata gli spirò tra le braccia. Quando ormai il suo corpo inerte stava per essere cremato, non sopportò che anche suo figlio, ancora vivo nel ventre di Coronide, fosse ridotto in cenere; e prima che le fiamme lambissero quel corpo, strappò dalle sue viscere Asclepio che portò nella grotta del centauro Chirone perché lo allevasse. IL CRATERE Igino, nella sua Astronomia, narra un’altra favola a sfondo morale attribuendola allo storico Filarco, vissuto nel III secolo a.C.: nel Chersoneso, dove molti credevano che fosse situata la tomba di Protesilao, l’eroe tessalo che partecipò alla guerra di Troia dove fu la prima vittima, c’era una città chiamata Eleusa. Durante il regno di Demofonte si abbatté sui suoi abitanti un’improvvisa epidemia che ne uccideva un gran numero. Il re, sconvolto da quella moria, si rivolse all’oracolo di Apollo per trovare un rimedio. La risposta fu di sacrificare ogni anno agli dei una giovane scelta a sorte tra le famiglie nobili. Così fece Demofonte escludendo tuttavia le sue figlie. Finché un giorno il nobile Mastusio, che non condivideva quell’atteggiamento iniquo, si rifiutò di offrire al sorteggio le figlie se il re non vi avesse incluso anche le proprie. Demofonte, infuriato, fece sacrificare una delle figlie di Mastusio senza fare la consueta estrazione. Il nobile, con la morte nel cuore, finse di rassegnarsi alla scelta per patriottismo; e il re a sua volta dimenticò presto l’incidente. Trascorse molto tempo finché un giorno Mastusio invitò Demofonte insieme con la famiglia a un sacrificio che egli celebrava regolarmente ogni anno. Il re, nulla sospettando, si fece precedere dalle figlie perché doveva ancora assolvere ad alcuni impegni di governo: le avrebbe raggiunte più tardi. Mastusio poté finalmente vendicarsi: uccise le principesse e, mescolato in un cratere il loro sangue al vino, fece poi servire la orrenda bevanda al re; il quale, stupito dell’assenza delle figlie, domandò dove si trovassero. Quando venne a conoscere l’atroce verità, ordinò alle guardie di gettare fra le onde Mastusio insieme con quel cratere. Il mare che accolse le spoglie del nobile ebbe il nome dell’assassino e il porto quello di Cratere. Successivamente, secondo Igino, gli astronomi avrebbero rappresentato il cratere nel firmamento per rammentare agli uomini che nessuno poteva commettere impunemente azioni criminose, ma anche per sottolineare che le offese e gli odi personali non si dimenticano tanto facilmente. Lo stesso Igino riferiva che altri mitoastronomi, sulla scia di Eratostene, identificavano il Cratere celeste con quello di cui si era servito Icario per donare il vino all’umanità. Infine, secondo una terza interpretazione, il Cratere sarebbe stata la giara nella quale Oto ed Efialte avevano gettato Ares. Si favoleggiava che a nove anni i due fratelli fossero già dei giganti, alti diciassette metri e larghi quattro. Non soltanto avevano deciso di salire sull’Olimpo ponendo le due montagne più alte della Tessaglia una sopra l’altra, ma avevano incatenato Ares, cui rimproveravano di avere causato la morte di Adone, e poi lo avevano rinchiuso in una giara di bronzo, dove il dio era rimasto per tre mesi prigioniero fino a quando Ermes non era venuto a liberarlo. Furono poi uccisi da Apollo. Per capire la presenza del Cratere in cielo occorre rammentare che nelle culture precereali esso aveva una grande importanza religiosa per la produzione delle bevande fermentate usate nei riti orgiastici e funerari. Prima dell’introduzione della vite si preparava una specie di vino facendo bollire le bacche di mirto in un calderone di bronzo o di terracotta montato su un treppiede. Quella bollitura nel cratere-lebete produceva una bevanda fermentata che si riteneva ad alto potere afrodisiaco. Nel lebete se ne preparava anche un’altra: il nettare, ottenuto miscelando all’idromele, il miele fermentato, una birra ricavata dall’abete e rinforzata col succo di edera. L’ IDRA Sull’Idra i Greci narravano, oltre alla leggenda del Corvo di Apollo, anche il mito della seconda fatica di Eracle. Dopo avere ucciso il Leone di Nemea l’eroe doveva affrontare l’Idra della palude di Lerna che aveva un corpo enorme e nove teste, di cui otto erano mortali e la nona, quella centrale, si considerava immortale. L’alito che usciva dalle sue gole era così mefitico che chiunque l’avvicinasse, anche quando stava dormendo, moriva. Era un flagello per gli abitanti di quel paese perché distruggeva i raccolti e decimava le mandrie. L’eroe, salito su un carro guidato dal nipote Iolao, giunse a Lerna dove, in una tana situata su una collina presso le sorgenti di Animone, trovò l’Idra. Colpendola con frecce infuocate la costrinse a uscire, poi l’afferrò tenendola saldamente. Il mostruoso serpente si avvinghiava minaccioso a una sua gamba. L’eroe con la clava ne troncava le teste, ma non riusciva a vincerla perché per ogni testa troncata ne rinascevano altre due. Un granchio enorme venne in aiuto dell’Idra mordendo il piede di Eracle che reagì schiacciandolo. Poi l’eroe chiamò Iolao, chiedendogli di appiccare il fuoco alla foresta vicina e di bruciare ogni volta con l’aiuto di tizzoni il collo amputato del mostro impedendo così alla testa di rinascere. Infine, tagliata quella che era ritenuta immortale, la seppellì lungo la strada che da Lerna portava a Eleonte e vi collocò sopra un macigno. Prudentemente squartò il corpo dell’Idra e immerse le frecce nel suo fiele. Secondo Apollodoro, Euristeo non accettò questa fatica fra le dieci che aveva fissato perché Ercole era stato aiutato da Iolao. |