ASTROLOGIA LA LUNA MITOLOGIA GRECA ROMANA
Selene
o la Luna piena
Il suo volto splendente è quello della Luna piena e scintillante, che in Grecia si chiamò Selene (da sélas, “splendore”). Era nata dalla titanessa della luce Theia, chiamata anche Tia o Tea, oppure Eurifessa, “colei che splende da lontano”, la quale si era unita al fratello Iperione, forma contratta di Iperionide (“quello di sopra”), identificato con la luminosità del cielo. “Teia risplendente a tutti i mortali e agli immortali dei che possiedono l’ampio cielo, giacendo con Iperione in amore, generò Elio, il grande Sole, Selene, la splendida Luna, ed Eos, la “precocemente nata”, la luce dell’Aurora”. Così cantava Esiodo nella Teogonia. Veniva spesso raffigurata nel firmamento alla guida del carro lunare trainato dai candidi buoi che Pan le aveva donato per consolarla dell’inganno grazie al quale era riuscito a sedurla: nascosto il pelo irsuto e nerastro sotto il vello di una bianca pecora, aveva potuto avvicinarla convincendola a salire sulla sua groppa per poi goderla, ormai consenziente. Si narrava che ogni sera Elio adagiava la sua aurea quadriga sull’Oceano, dove sorgeva Selene, con la quale giaceva nella notte. Poi si salutavano e, mentre il dio solare dormiva nella coppa forgiata da Efesto aspettando l’arrivo della sorella Eos, la dea dell’Aurora, Selene bicorne percorreva il cielo stellato in compagnia delle nove sacerdotesse che badavano al suo argenteo cocchio. Per venticinque giorni i due fratelli amanti s’incontravano; ma negli altri cinque Selene, all’insaputa di Elio, si recava dietro la catena montuosa del Latmo, in Asia Minore, per dedicarsi all’amato Endimione col quale giaceva per tre giorni (quelli del novilunio, quando la Luna non è visibile). Narrava un mito che un giorno la dea aveva scoperto in una grotta del monte il bellissimo pastore, figlio di Zeus e della ninfa Calice, e non aveva saputo resistere alla tentazione di unirsi a lui. Poi aveva chiesto al padre Zeus di esaudire un desiderio del giovinetto. Endimione, che Karoly Kérényi ha tradotto in “colui che si ritrova dentro di sé”, scelse di dormire di un sonno eterno restando perennemente giovane. Assimilabile alla Luna piena era anche Leda, o Lada, il cui nome, di origine orientale, aveva lo stesso significato di Latona, la madre di Apollo e Artemide: era la ninfa primigenia, il primo essere femminile. In un’altra versione del mito si chiamava Nemesi, la figlia della Notte che, fuggendo lo spasimante Zeus, si era gettata in mare trasformandosi in pesce, poi era risalita sulla terraferma assumendo le sembianze di un’oca. Fu allora che il sovrano degli dei riuscì finalmente a congiungersi a lei nelle sembianze di un cigno. Il pesce simboleggia la falce crescente e la bianca oca la Luna piena, ovvero la Grande Madre che sarà ingravidata, “celata di nuovo”; ma pronta a risorgere nella figlia Elena, la mitica sorella dei Dioscuri. Ecate o la Luna nera Ecate (Ekate) fu invece chiamata la Luna nera, la Luna in congiunzione col Sole. Fra tutte le divinità della Teogonia ella godeva, grazie a Zeus e insieme con lui, del particolare privilegio di estendere la sua giurisdizione su terra, cielo e mare. Fu detta anche la Multiforme per le sue molteplici funzioni: eco di una Grande Madre preellenica che venne poi subordinata a Zeus. Ecate, la Luna che regna negli inferi, la Luna nera, la Luna che esiste ma non si vede, l’oscura Luna simbolo della morte-utero dove tutto rifluisce per nascere, venne considerata a poco a poco fra gli Elleni legata al mondo delle ombre: la divinità che presiedeva al mondo degli incantesimi. Appariva a maghi e maghe con una torcia in ogni mano oppure nelle sembianze di un animale, come giumenta o cagna o lupa. Il suo arcaico culto si trasformò nell’ambito della tradizione greca in quello di una dea Trigemina o Tricefala, come testimonia anche Ovidio, che nei Fasti parla delle tre facce della dea. Delle tre teste la prima era di cavallo, la seconda di cane, la terza di cinghiale oppure di uomo rustico. “Considerata quando sparge il lume sopra di noi”, spiegava Vincenzo Cartari “viene chiamata Diana cacciatrice, il che lo si può intendere per lo cinghiale, perché sta questa bestia nelle selve sempre e nei boschi, sì come la testa del cavallo, animale veloce, ci fa vedere ch’ella circonda velocissimamente il cielo, e quella del cane ci dinota la medesima quando a noi si nasconde fu creduta la dea dell’inferno e chiamata Proserpina perché si dà il cane al dio dell’inferno, come Cerbero, dalle favole tanto celebrato, ne fa fede”. A lei si fece risalire l’invenzione della stregoneria. Lei invocava Medea, figlia del fratello di Circe, Eete, per i suoi incantesimi. E lei invocava Circe negli incantesimi operati, come narra Ovidio nelle Metamorfosi, per difendersi dalla rabbia e dal desiderio di vendetta dei compagni di Pico, il figlio di Saturno, che “la maga” aveva trasformato in un picchio punendolo perché aveva rifiutato il suo amore. Per questo motivo le erano sacri i crocicchi, luoghi di magia per antonomasia, dove si ergevano sue statue, ai piedi delle quali venivano deposte offerte. Artemide o la falce di Luna crescente Quando invece la Luna, risorta dagli inferi, appariva nel cielo stellato come un’esile falce per crescere ogni notte e farsi più consistente, via via che si avvicinava al plenilunio, assumeva in Grecia il nome di Artemide (Artemis). Leto o Latona (Letó) era figlia del titano Ceo e della titanide Febe: apparteneva perciò alla prima generazione divina. Si narrava che, quando era rimasta incinta dei due gemelli divini che le aveva generato Zeus, la gelosa Era aveva proibito a tutti i luoghi fertili della terraferma di offrirle asilo per il parto. Leto errava disperata di luogo in luogo senza potersi mai fermare, finché capitò sull’isola di Ortigia che acconsentì ad accoglierla perché, essendo totalmente sterile ed errando nel mare, non aveva nulla da temere da Era. In segno di ricompensa l’isola venne ancorata da Latona in fondo al mare con quattro colonne e ribattezzata Delo, “la brillante”, per ricordare la nascita di Apollo, il dio della luce. Secondo un’altra versione del mito, Era aveva stabilito che Leto non avrebbe potuto partorire in nessun luogo sul quale brillassero i raggi del Sole. Per ordine di Zeus, Borea portò la giovane da Poseidone che escogitò uno stratagemma: fece sollevare i flutti del mare sopra l’isola di Delo in modo da formare una cortina liquida fra il Sole e quella terra. Artemide, che era nata per prima, aiutò la madre a partorire il fratello Apollo. Per questo motivo veniva invocata dalle donne incinte e dalle partorienti come Cinzia, o dea del parto. La si invocava anche come kurotrofos, “nutrice”, perché proteggeva i bambini e i cuccioli degli animali. Il legame con le nascite e con i cuccioli la fece poi assimilare alla Grande Madre venerata nella Ionia: la si chiamò Artemide Efesina dalle molte mammelle. Nonostante la funzione di patrona delle nascite e della fecondità, rimase una selvaggia fanciulla che amava soltanto la caccia: Vergine (parthénos) e Grande Madre, dunque, secondo una funzione che si riscontra in altre figure di dee dell’antichità e successivamente nella Vergine Maria. La si raffigurava come indomabile e vendicativa cacciatrice; con una veste corta, una lancia, le temibili frecce e un argenteo arco, simbolo della Luna crescente, mentre l’accompagnavano cani e cervi. Come patrona delle nascite appariva invece con una lunga veste che le giungeva fino ai piedi, il capo velato e una falce di Luna sulla fronte mentre reggeva una fiaccola in mano. La Falce di Luna crescente divenne anche la patrona delle giovani dal momento della nascita al matrimonio, ovvero del loro “tempo selvaggio della vita”: una delle immagini della donna “che, attraversando la propria vita, assume ruoli via via diversi, così come la Luna cresce a poco a poco per conquistare la sua pienezza”. A Roma fu assimilata all’autoctona Diana, che Varrone chiamava anche Diviana, da devia, “colei che si discosta”, poiché il percorso della Luna varia in altezza e ampiezza di notte in notte. Ma arcaicamente Diana non aveva un legame con la Luna, era una dea silvestre; e la luce che evocava il suo nome era quella che “traspare, splendente d’improvviso chiarore tra le fronde dei rami nella ‘radura boschiva’ o lucus, donde Diana sarebbe stata detta anche Lucina (come Giunone) o ‘la dea del luogo chiaro’, dove filtra la luce del giorno”. I Latini onoravano in Di-ana (da dium, “il mondo celeste”), una Grande Madre la cui funzione era di conferire simbolicamente il regnum e di tutelare le nascite; funzione che gli Indoiranici e gli Scandinavi attribuivano invece a una figura maschile, a un dio celeste. Successivamente, fin dal IV secolo a.C., la Diana di Roma e del suo santuario di Ariccia fu assimilata ad Artemide e assunse quella connotazione lunare che ha conservato nella tradizione classica. |